Il Congresso di Bassano (luglio 1797)

Ippolito Nievo

Del Congresso di Bassano (luglio 1797) parla Ippolito Nievo nel suo romanzo Le Confessioni di un Italiano. Carlino Altoviti, il protagonista del romanzo, si trova a Venezia nel luglio del 1797 quando, sotto la spinta delle vittorie militari napoleoniche, le città della terraferma veneta si sono costituite in municipalità autonome, staccandosi dall’ormai crollato governo della Serenissima Repubblica di Venezia. Nasce la Repubblica Cisalpina, alla quale le città lombarde e venete chiedono di essere annesse per evitare in extremis di condividere quello che ormai si delinea come il certo destino di Venezia: il trattato di Campoformio e la cessione all’Austria. A Bassano, nella villa Rezzonico, si riunisce uno dei congressi in cui i rappresentanti delle libere municipalità deliberano il distacco da Venezia e l’adesione alla Repubblica Cisalpina. Inutilmente, però, perché il Veneto e Venezia sono merce di scambio che Napoleone usa con spregiudicatezza per i propri fini politici.

Anche a Venezia si è costituita una libera municipalità retta dai patrioti. Carlo Altoviti, che prima della caduta della Repubblica di San Marco era entrato come patrizio veneziano nel Maggior Consiglio,  ne diventa il segretario. I patrioti veneziani orgogliosamente rivendicano la libertà di Venezia, rimarcando il tradimento e l’atteggiamento opportunistico della terraferma veneta. Il protagonista dà così sfogo alla sua rabbia: …restino infamati per sempre i nomi di coloro che sottoscrissero un foglio dove si negava aiuto a una città sorella, sventurata e pericolante. Meglio annegare insieme che salvarsi senza stendere una mano al congiunto all’amico che implora pietosamente soccorso. Con Venezia finiscono, per Carlino, il “mondo vecchio” e la spensierata giovinezza. Le macchinazioni politiche che si esercitano attorno al Congresso di Bassano suonano la sveglia, con i presagi di un futuro personale e politico avverso e difficile.

“E cosí ho scritto un degno epitaffio su quegli anni deliziosi da me vissuti nel mondo vecchio; nel mondo della cipria, dei buli e delle giurisdizioni feudali. Ne uscii segretario d’un governo democratico che non aveva nulla da governare; coi capelli cimati alla Bruto, il cappello rotondo colle ali rialzate ai lati, gli spallacci del giubbone rigonfi come due mortadelle di Bologna, i calzoni lunghi, e stivali e tacchi cosí prepotenti che mi si udiva venire dall’un capo all’altro delle Procuratie. – Figuratevi che salto dagli scarpini morbidetti e scivolanti dei vecchi nobiluomini! Fu la piú gran rivoluzione che accadesse per allora a Venezia. Del resto l’acqua andava per la china secondo il solito, salvoché i signori francesi si scervellavano ogni giorno per trovar una nuova arte da piluccarci meglio. Erano begli ingegni e ce la trovavano a meraviglia. I quadri, le medaglie, i codici, le statue, i quattro cavalli di san Marco viaggiavano verso Parigi: consoliamoci che la scienza non avesse ancor inventato il modo di smuovere gli edifici e trasportar le torri e le cupole: Venezia ne sarebbe rimasta qual fu al tempo del primo successore di Attila. Bergamo e Crema s’erano già occupate definitivamente per riquadrare la Cisalpina; dalle altre provincie si vollero radunar a Bassano deputati che giudicassero sul partito da prendersi. Berthier, destreggiatore, presiedeva per attraversare ogni utile deliberazione; io scriveva a Bassano i desiderii dei Municipali, e ne riceveva le risposte. Il dottor Lucilio, che senza parerlo seguitava ad esser l’anima del nuovo governo, non voleva che si abbandonasse quell’ultima àncora di salute, e destreggiava e si ostinava anche lui. Sembrava che si fosse prossimi ad un accordo di comune gradimento quando il furbo Berthier dichiarò a precipizio che l’accordo era impossibile, e buona notte! Venezia restò colle sue ostriche, e le provincie coi loro presidenti, coi loro generali francesi. Victor a Padova gracchiava impudentemente che non si badasse ai Veneziani, razza putrida e incorreggibile d’aristocratici. Bernadotte,1 piú sincero, proibiva che da Udine si mandassero deputati alla commediola di Bassano. I tempi erano cosí tristi che la crudeltà era poco men che pietosa, e certo piú meritoria dell’ipocrisia. Nondimeno io tirava innanzi colla benda agli occhi e colla penna in mano, credendo di correre incontro ai tempi di Camillo o di Cincinnato. Mio padre squassava il capo; io non gli badava per nulla, e credeva forse che la volontà o la presunzione d’alcune teste calde avrebbe bastato a slattare quella libertà bambina e già peggio che decrepita”.

(Ippolito Nievo, Le Confessioni di un Italiano, cap. XII)

  1. Berthier e Bernadotte erano generali di Napoleone []